Quando avevo 11 anni i miei genitori decisero di segnarmi alla scuola media ad indirizzo musicale nel mio quartiere. Ero molto entusiasta all’idea di iniziare, suonavo il piano da quando avevo 5 anni e, dopo anni di lezioni private a casa, sentivo che iniziare a studiare pianoforte in una scuola pubblica sarebbe stata tutt’altra storia. Lo vivevo come un primo salto per iniziare a fare le cose seriamente e ricordo ancora l’emozione che provai quando scoprii di aver superato l’esamino di ammissione per accedere ai corsi pomeridiani di strumento.
Il primo anno filò abbastanza liscio. Mi trovavo bene con l’insegnante, andavo a lezione con piacere e ricordo che durante l’anno lavorammo a diversi brani. Mi piaceva molto suonare, non ero per niente un bravo studioso, a casa perdevo un sacco di tempo al pianoforte, suonando solo le cose che mi piacevano lasciando sistematicamente i passaggi complicati per “altri momenti” che non arrivavano mai. Questo faceva sì che i miglioramenti fossero lenti, faticosi e incostanti; un cattivo studio che sono riuscito a correggere solo verso gli ultimi anni di conservatorio e nei primi anni successivi al diploma.
Come dicevo però, non vivevo tutto ciò come un problema, tutt’altro. Ero fortemente appassionato ed avevo un talento grazie al quale riuscivo a migliorare anche senza disciplina.
Alla fine del primo anno però l’insegnante andò via. Venne sostituita da una persona di cui non scrivo il nome per correttezza, ma che non ho mai dimenticato per un istante da allora.
La storia cambiò totalmente; si creò da subito un rapporto pessimo tra di noi. La sua mancanza di voglia era contagiosa e ben presto persi gran parte dell’interesse che avevo per lo strumento. Non provavo il minimo piacere o gratificazione durante la lezione, ogni scusa era buona per alzare la voce, rimproverarmi e farmi sentire la scarsa considerazione che aveva nei miei confronti.
Arrivammo al punto in cui mi disse apertamente che secondo lei sarebbe stato meglio se avessi smesso di suonare il pianoforte.
Mi ci sono voluti diversi anni e solo quando ho iniziato ad insegnare a mia volta mi sono reso veramente conto di quanto fosse sbagliato annientare il piacere di un ragazzino e consigliargli di smettere quando, in qualità di insegnante, i consigli dovrebbero essere di tutt’altro carattere.
Da lì in poi, per fortuna, si sono susseguiti (salvo qualche rarissima ed immancabile eccezione) una serie di insegnanti sempre migliori che hanno fatto sì che piano piano iniziassi a ritornare ad avere la giusta considerazione dei miei mezzi, riaccendendo quella scintilla grazie alla quale oggi faccio il lavoro che amo.
Purtroppo ci è voluto molto tempo. Quell’insegnante lasciò degli strascichi che solo oggi, che li ho superati, riesco ad analizzare e ad interpretare con il giusto senso critico.
Da un lato c’era la sopra citata scarsa considerazione nei miei confronti. L’altro problema era dovuto al fatto che preferisse altri ragazzi, oggettivamente meno talentuosi e, soprattutto, meno appassionati (quasi tutti smisero di suonare nel giro di pochi anni).
Queste due problematiche hanno fatto sì che nel corso degli anni mi godessi comunque un po’ di meno ciò che facevo perché avevo il costante terrore di essere giudicato negativamente da qualcuno, insegnanti, altri studenti, chiunque.
Come se non bastasse, questo piccolo disturbo mi portava ad entrare interiormente in competizione con altri musicisti. Volevo essere il migliore e, soprattutto, volevo fosse chiaro a tutti che io ero il migliore. Ricordo diversi saggi di pianoforte in cui mi spingevo e auto incitavo a suonare al meglio delle possibilità per dimostrare le mie capacità ad altri. Lezioni o masterclass in cui l’unico obiettivo era dimostrare le mie qualità.
Dimostra. Fatti vedere. Nessuno ti dirà più che è meglio se fai altro nella vita.
Agghiacciante.
Significa non godersi mai la pura essenza di ciò che si fa. Avere sempre altri scopi, altri obbiettivi fa perdere di vista ciò che si sta facendo e le motivazioni reali, che sono ben più forti e profonde.
La Musica è bella di suo e fare il musicista deve essere gratificante di per sé, senza folli manie di protagonismo o deliranti desideri di supremazia.
Pochi giorni fa riflettevo per l’ennesima volta su tutta questa situazione. Oggi posso dire di averla superata. Finalmente da un po’ di tempo sono tornato a provare il vero piacere che la Musica può dare; suono per me stesso e lo condivido con chi lo apprezza, cercando di avvicinare le persone senza distrarmi con un’insensata competitività che non mi appartiene. Cosa ancora più importante: cerco di trasmettere questi pensieri ai miei giovani allievi. Scoprire intanto ciò che significa per noi la Musica e poi diffondere le nostre “scoperte”, la nostra interpretazione, il nostro punto di vista.
A che serve questo testo?
Innanzitutto penso sia terapeutico per me mettere tutto nero su bianco, un memento della mia trasformazione interiore. Il vero motivo è però un altro.
Non credo di essere l’unico ad aver vissuto un piccolo trauma di questo tipo che lo ha portato a stravolgere una parte di sé stesso. In un mondo che si basa eccessivamente sulla competizione, sulla dimostrazione di essere il migliore, voglio portare la testimonianza di una persona che ha abbandonato un modo di pensare che non ritiene affatto sano per nessuno di noi.
Fare Musica più serenamente mi ha portato a togliermi molte soddisfazioni, a vivere in maniera più sana e sono convinto che concentrandomi sulla divulgazione e sulla condivisione della mia interpretazione posso fare del bene anche per qualcun altro.
Se hai letto fin qui sono contento di aver intanto condiviso il mio pensiero.